![Aqua Crua](https://cdn.statically.io/img/media-assets.lacucinaitaliana.it/photos/6687ffdbc51030d51fd9c5d2/16:9/w_320%2Cc_limit/cucina.jpg)
Ristorante e rifugio di Giuliano Baldessari, tra latex, fermentazioni ed energia positiva delle materie prime. I menù oltre il gusto e quello classico
Compie dieci anni Aqua Crua, il ristorante stellato voluto e guidato dallo chef Giuliano Baldessari. Dieci anni di ricerca e sperimentazione, ma anche di cura e rifugio dell’anima perché questo è, prima di ogni altra cosa, il “luogo sicuro” in cui lo chef vive e lavora. Siamo a Barbarano Vicentino (Vi) in un piccolo paese immerso tra le colline venete all’interno di quella casa che fu anche abitazione di Antonio Pigafetta, come testimonia lo stemma trovato sui muri esterni della torre dell’edificio che oggi ospita la cucina. Dal 2014 rifugio e cura che qui diventano avanguardia, contraltare di un percorso personale e familiare a tratti turbolento con cui Baldessari ha imparato a fare i conti. La cucina è salvifica, in questo caso più che mai, e ha bisogno di essere anche concreta. Ecco perché all’interno di Aqua Crua, dove da un anno esistono tre menù degustazione per scoprire l’essenza più autentica dello chef e un percorso alla carta, è in quest’ultimo che Baldessari propone gusti classici della cucina italiana.
Giuliano Baldessari ci racconta Aqua Crua
«Il menù à la carte, la Carta Crua, è il perno del vortice, il punto di equilibrio. Si tratta» spiega lo chef, «di una selezione di piatti classici e di piatti storici del locale» Insomma, non troverete alimenti prodotti da mosche, muffa o pellicole commestibili come nelle altre proposte, ma pasta al dente in piena tradizione mediterranea, alici marinate e spaghetti al pomodoro. «La Carta è il perfetto contraltare degli eccessi dei tre menù, contrasto che rispecchia perfettamente la mia anima bipolare che oscilla continuamente fra trasgressione e rigore».
E per servire la proposta alla carta Baldessari cambia anche la mise en place: al posto del tavolo “nudo”, riservato ai menù degustazione, qui si crea un vero e proprio mood affine al percorso gustativo. Ecco tovaglie bianche, posate d’argento, piatti del 1700, bicchieri Baccarat vintage come le caraffe e vengono addirittura cambiate le sedie: ai commensali sono portate autentiche Thonet di inizio Novecento e Chiavarine originali.
Nulla in questo posto, come si evince appunto dalla mise en place, è lasciato al caso: lo testimonia ogni scelta del luogo, dal parquet in castagno ricavato da un pavimento originale di una chiesa sconsacrata all’armoniosa accoglienza delle camere in cui, al piano superiore del ristorante, è possibile soggiornare.
E così, mentre da un lato Baldessari presenta un menù classico e “originale”, un ritorno alla tradizione culinaria e alle tecniche fondamentali, l’altra scelta introduce tre menù audaci: un’escalation di provocazione e trasgressione da navigare passo dopo passo. Si tratta di un viaggio attraverso la follia per riscoprire la stabilità attraverso il gusto, incarnando una fusione armoniosa di tradizione e audace sperimentazione. I menù si chiamano Iniziazione (I, II e III) e lo chef li prepara vestito in latex. Questo è il modo per isolarsi da quel disagio che più volte ha segnato la sua vita costellata da trasgressioni e momenti di difficoltà: «Con il latex» spiega Baldessari, «inibisco completamente gli altri sensi e mi concentro esclusivamente sul gusto, veicolo per me di guarigione». La sua è una cucina introspettiva e interiore capace di esplicitare un percorso personale attraverso piatti che raccontano di ricerca e di equilibrio attraverso uno spettacolo in cui attore, regista e scena sono un unico essere. «La mia» prosegue lo chef, «è una cucina creativa, all'avanguardia insolita e provocatoria che spesso nasce da una idea di ribellione o riportando alla cucina piani diversi dell’esistenza.
L’obiettivo è spingere oltre ogni limite i parametri del gusto, scoprendo nuovi orizzonti gustativi lontani dalla memoria storica. Per questa ragione è data particolare attenzione all’utilizzo dell’acidità e comunque dello stimolo multisensoriale e retro olfattivo, utilizzando tecniche come fermentazioni, nixtamalizzazioni, muffe e kombucha.
Così nascono piatti intensi: ecco il Controfiletto di fassona inoculato di penicillium candidum, ossia la carne con la crosta fiorita di un brie; oppure il Risotto al cordyceps, un fungo parassita degli insetti. E poi la Bresaola vegetale, l’Anello di pasta salata con caviale Kaluga-Amur, la Battuta di daino condita con colatura di alici e caolinite, il Risotto al plancton con caffè d’alga, i Ravioli di capriolo con crema di tartufi di mare, burro montato e kefir lime o, ancora, la Crema Carbonizzata, nata da una discussione con clienti sul tema delle aspettative. «Sono troppo facili da disattendere» spiega Baldessari, «per questo non mi piacciono e per questo motivo ho creato questo dessert al piatto: basso, butto, grigio, sporco, ma che regala in bocca una potenza gustativa importante. In questo dessert ho lavorato sull’aroma del caffè e sul profumo retroattivo di lime, acidità citrica, erbacea con il discorso della radice e dell’energia che trasmette».
Fondamentale è, poi, in questo percorso gustativo e sensoriale, la grande conoscenza di Baldessari della materia prima con uno studio maniacale di razze autoctone esistenti in natura e anche dei profili chimico organolettici della stessa. Ma alla base di tutto c’è la filosofia di una cucina che guarda all’energia positiva delle materie prime trasformate nel piatto: «Ricerco costantemente questa caratteristica» prosegue lo chef di origini trentine, «perché dobbiamo fornire energia positiva al nostro cervello anche e soprattutto attraverso il cibo. Mi spiego: c’è una grande differenza tra consumare una carne da allevamento o una di selvaggina. Non amo cacciare, ma sono consapevole del fatto che se un animale è nato in un bosco, c’è vissuto e viene ucciso senza sofferenza con un colpo diretto al cuore, regalerà un’energia, un gusto, un sapore diverso alla carne rispetto a quella di un animale in cattività». E questo pensiero si traduce in atti concreti molto espliciti: da Aqua Crua la carne deriva da allevamenti selezionati (solo razze autoctone e non create in laboratorio) e da cacciagione nei boschi del Trentino; per quanto riguarda la pesca niente di allevato, ma solo pesce pescato in mare mentre per i vegetali le scelte sono prevalentemente per erbe spontanee e piante selvatiche. Così Aqua Crua diventa ristorante laboratorio di creatività per dare gusto ai pensieri dello chef ed eremo in cui meditare, sanare i bisogni del passato e i traumi della vita.
«Sono stato fin da piccolo iperattivo, pertanto sono cresciuto in mezzo ai boschi del trentino e pescando nei ruscelli, costruendo dighe e altro: tutte attività che facevo nel corso della giornata e che erano le uniche capaci di rendermi felice e stancarmi. Tuttora trascorro la maggior parte del mio tempo libero nei boschi alla ricerca di erbe rare, funghi, frutti selvatici o, semplicemente, abbracciando gli alberi e godendo della loro energia. Amo lavorare sulla mente» conclude, «e i miei valori sono la verità del piatto, senza troppi fronzoli e l’onestà della qualità nei confronti dei commensali, il rispetto della materia prima e del cliente stesso. Credo che ingerire cibo sia l’azione più intima che l’individuo possa compiere ed è per questo che, per me, un altro grande valore è la fiducia che si instaura fra me e i miei ospiti».